martedì 28 aprile 2020

Il falso problema delle post-verità




Evgeny Morozov
è un sociologo e giornalista bielorusso, esperto di nuovi media, interessato allo studio degli effetti dispiegati sulla società, e sulla pratica della politica, dallo sviluppo della tecnologia e, in particolare, dalla crescente diffusione e disponibilità di mezzi di comunicazione telematica

La democrazia sta annegando in un mare di notizie false. Questa è la rassicurante conclusione a cui sono arrivati tutti quelli che nel 2016 hanno perso nelle consultazioni popolari, dalla Brexit alle presidenziali statunitensi al referendum in Italia. Per queste persone il problema non è che il Titanic del capitalismo democratico stia navigando in acque pericolose, ma che ci siano troppe notizie false sulla presenza di iceberg all’orizzonte. Da qui nascono tutte le soluzioni sbagliate: vietare i memi su internet, creare commissioni di esperti per controllare la veridicità delle notizie, multare i social network che diffondono falsità.
La crisi delle notizie false segnerà il collasso della democrazia o è solo la conseguenza di un malessere più profondo e strutturale? E’ evidente che esiste una crisi, ma una democrazia matura dovrebbe chiedersi se al centro di questa crisi ci sono davvero le notizie false o qualcosa di molto diverso. Le nostre élite, purtroppo, non hanno intenzione di farlo. La loro narrazione sulle notizie false è essa stessa falsa. E’ una spiegazione superficiale di un problema strutturale di cui rifiutano di ammettere l’esistenza. Il fatto che l’establishment abbia scelto di concentrarsi sulle notizie false dimostra fino a che punto la sua visione del mondo sia ottusa.
La vera minaccia non è l’emergere della democrazia illiberale, ma la persistenza di una democrazia immatura. Questa immaturità si manifesta in due negazioni: la negazione delle origini economiche dei problemi attuali e la negazione della profonda corruzione delle competenze professionali. Il primo rifiuto emerge chiaramente quando fenomeni come Donald Trump vengono collegati a fattori culturali come il razzismo o l’ignoranza degli elettori. Il secondo consiste nel negare che l’enorme insoddisfazione delle presone nei confronti delle istituzioni nasca dalla piena consapevolezza del modo in cui operano, e non dall’ignoranza.
Il panico sulle notizie false illustra alla perfezione queste due negazioni. Il rifiuto di riconoscere che la crisi delle notizie false ha un’origine economica fa sì che nella vicenda delle presunte influenze di hacker russi sulle lezioni statunitensi il capro espiatoria sia il Cremlino e non l’insostenibile modello economico del capitalismo digitale. Ma nessuna interferenza esterna potrebbe mai produrre notizie virali su questa scala. I movimenti di svitati che vivono sulle notizie false ci sono sempre stati, solo che in passato mancava un’infrastruttura digitale capace di rendere virali le teorie più assurde. Il problema non sono le notizie false, ma la velocità con cui si diffondono. Questo problema esiste perché il capitalismo digitale rende estremamente proficua la produzione e la circolazione di notizie false ma invitanti. Basti pensare a Google e Facebook.
Per inquadrare la crisi delle notizie false in questo modo, però, bisognerebbe superare le due negazioni fondamentali. Ma chi vorrebbe mai riconoscere che negli ultimi trent’anni sono stati i partiti politici e di centrosinistra e centrodestra a sostenere i geni della Silicon Valley, a privatizzare le telecomunicazioni e trascurare le leggi antitrust?
Il secondo tipo di negazione ignora la crisi dell’attuale modello di conoscenza basato sulla specializzazione. Quando i centri studi accettano di buon grado finanziamenti da governi stranieri, le aziende energetiche finanziano ricerche che negano il cambiamento climatico e i commissari europei lasciano il loro posto a Bruxelles per andare a lavorare a Wall Street, non possiamo certo criticare i cittadini che non si fidano degli “esperti”.
Ancora peggio è quando  a parlare di notizie false sono i mezzi di informazione che, pressati dalla crisi, sono i primi a diffonderle. Basta pensare al Washington Posta, no dei pochi giornali che oggi sostiene di essere in attivo. Dopo aver accusato vari siti d’informazione di diffondere la propaganda russa, di recente il Post ha dato la notizia di un attacco informatico russo contro una centrale elettrica statunitense. A quanto pare questo attacco non c’è mai stato, e il giornale non ha nemmeno contattato il gestore della centrale per verificare la notizia. Nell’economia digitale la verità è qualsiasi cosa attiri l’attenzione. Sentire giornalisti lamentarsi senza nemmeno riconoscere le loro colpe non rafforza la fiducia delle persone negli esperti. Non so  se la democrazia stia davvero annegando in un mare di false notizie, ma di sicuro sta affogando nell’ipocrisia dell’élite.
L’unica soluzione è rivedere le basi del capitalismo digitale. Dobbiamo fare in modo che la pubblicità online sia meno centrale nelle nostre vite, nel nostro lavoro e nel nostro modo di comunicare. Allo stesso tempo dobbiamo garantire più potere decisionale ai cittadini invece di affidarci a esperti facilmente corruttibili e ad aziende interessate solo al profitto. Questo significa costruire un mondo in Facebook e Google non abbiano  tutta questa influenza. E’ una missione degna di una democrazia matura. Purtroppo le democrazie attuali, soffocate dalla negazione, preferiscono dare la colpa a tutti meno che a sé stesse.


Articolo uscito su Internazionale del 12 gennaio 2017


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