lunedì 29 agosto 2022

La più grande beffa del capitalismo

 


Se fino ad oggi qualsiasi ipotetico attacco al capitalismo, infatti, si è spento prima ancora di essere teorizzato era perché le forze anticapitaliste si sono fatte mettere con le spalle al muro, si sono fatte sgonfiare gli idoli, desemantizzare gli slogan, rubare persino le battaglie, portandoci in un mexican standoff da cui non sembra esserci nessuna possibilità di uscita. Come si fa infatti a distruggere qualcosa che non ha confini, né alternative? Non si può, è un paradosso ed è su quello che ci siamo costruiti la prigione intellettuale di altissima sicurezza che, negli ultimi trent’anni almeno, ha permesso al capitalismo di arrivare a sentirsi invincibile e onnipotente.

Eppure non è esattamente così, e Fisher scavando nel botro lutulento dei nostri tempi ha trovato uno spiraglio: se il gigante ha un punto debole, questo è proprio la sua natura assolutista.

Per questo, scrive Fischer, non bisogna arrendersi a quella che oggi, ai nostri occhi, sembra una incontrovertibile evidenza. «Il fallimento delle precedenti forme di organizzazione politica anticapitalista non deve essere causa di disperazione», scrive Fisher. «La crisi è un’opportunità: ma va trattata come straordinaria sfida speculativa, come lo stimolo per un rinnovamento che non sia un ritorno», continua, e affonda: «Un anticapitalismo efficace deve essere un rivale del Capitale, non una reazione ad esso. Tornare alla territorialità precapitalista è impossibile. Al globalismo del Capitale, l’anticapitalismo deve opporsi ricorrendo al suo più puro, autentico universalismo».

Ma come si fa a sconfiggere un nemico così potente e immenso? «La lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un’opportunità enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista significa che persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre degli effetti sproporzionatamente grandi. L’evento più minuscolo può ritagliare un buco nella grigia cortina della reazione che ha segnato l’orizzonte delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile». Per far collassare la tenda del circo, d’altronde, potrebbe bastare perfino la punta di uno spillo, no?

 


martedì 29 marzo 2022

L’inutile tirannia del Covid pass in Italia by Nicholas Farrell

 

Mentre la maggior parte dei paesi europei, in particolare la Gran Bretagna, stanno allentando le loro restrizioni Covid, l’Italia che ha le più dura di tutte, questa settimana li ha resi ancora più duri, anche se i dati mostrano che sono inutili.

Forse è perché l’Italia è un paese in cui indovini e guaritori di fede sono un’industria multimiliardaria che ha il regime di passaporto dei vaccini più draconiano d’Europa. Ad ogni modo, la psicosi di massa acceca i politici e popolazione.

Nel Regno Unito, le false affermazioni dei consulenti scientifici del governo sulla necessità e sui vantaggi dei blocchi sono state alla fine demolite in modo convincente e The Spectator ha svolto un ruolo significativo nel processo.

È giunto il momento che anche simili false affermazioni false sui passaporti dei vaccini vengano sfatate.

Non esiste posto migliore dell’Italia per avviare questo processo di smascheramento.

La giustificazione per il regime del passaporto dei vaccini in italia – chiamato “Il Green Pass” –è  stato introdotto lo scorso agosto per aumentare l’adozione del vaccino, creare spazi sicuri per i vaccinati e quindi ridurre i casi di Covid, i ricoveri e i decessi. Non ha fatto nessuna di queste cose.

Invece il regime è diventato costantemente più draconiano. I non vaccinati sono stati presto banditi da quasi tutti gli spazi pubblici e dai trasporti pubblici, e persino dal lavoro, a meno che non avessero avuto il Covid negli ultimi sei mesi, o pagando un test Covid di 15 € una volta ogni 48 ore.

 Acclamato come un enorme successo con fervore religioso dal governo di unità nazionale italiano, guidato dal premier non eletto ed ex banchiere centrale dell’UE, Mario Draghi, “Il Green Pass” non è stato in realtà altro che un esercizio di inutile tirannia. Nonostante ciò, a dicembre, il governo Draghi ha introdotto ‘Il Super Green Pass’ che ha reso il regime ancora più tirannico con la vaccinazione ormai obbligatoria per tutti sui mezzi pubblici, e in molti spazi pubblici come ristoranti e bar – anche all’esterno – nelle parruccherie e negli stadi, a meno che non abbiano avuto il Covid negli ultimi sei mesi. Annullato il diritto dei non vaccinati a sostenere il test di 48 ore da 15€ per accedervi.

E questa settimana, con il tasso di contagi in caduta libera, la vaccinazione obbligatoria è stata estesa ai luoghi di lavoro per gli over 50. La vaccinazione era già obbligatoria sul lavoro per gli operatori sanitari e di emergenza e gli insegnanti. Ma d’ora in poi, nessuna persona non vaccinata di età superiore ai 50 anni che non abbia avuto il Covid negli ultimi sei mesi potrà andare al lavoro. Se lo fanno, loro e il loro datore di lavoro rischiano multe da € 600 a € 1.500.

In precedenza, potevano ancora andare al lavoro se facevano il test Covid da 15 € ogni due giorni o se avevano il Covid negli ultimi sei mesi. Ci sono 500.000 italiani non vaccinati di età superiore ai 50 anni che lavorano e ora saranno sospesi senza paga – secondo la stampa italiana – a meno che non gettino la spugna e non vengano presi a pugni. La stragrande maggioranza delle persone ha scelto di farsi vaccinare di propria spontanea volontà e non ha bisogno di essere obbligata a farlo dallo stato. Naturalmente, né il non eletto Draghi né nessun altro nella sua coalizione interpartitica ammetterà mai che quello che strombazzano come il loro risultato più orgoglioso è un fallimento.

Né i media italiani che hanno seguito così supinamente la linea del governo – né gli stessi italiani – tre quarti dei quali sostengono “Il Green Pass” nei sondaggi.

Tutti rischiano di perdere la faccia adesso.

Che la loro ossessiva convinzione sulle meraviglie de “Il Green Pass” sia una completa sciocchezza è chiaro da un confronto dei dati per l’Italia e la Gran Bretagna che in realtà non ha avuto alcuna forma di passaporto vaccinale.

Italia e Gran Bretagna hanno popolazioni simili, rispettivamente con 59 milioni e 69 milioni di persone.

Oggi, dopo quasi sette mesi di regime del passaporto vaccinale in Italia, il numero di persone non vaccinate in Italia e in Gran Bretagna rimane più o meno lo stesso. In Italia, l’88,92% degli over 12 è completamente vaccinato, rispetto all’84,9% in Gran Bretagna.

A gennaio c’erano ancora 5,9 milioni di italiani non vaccinati di età superiore ai 12 anni, ancora una volta un numero simile a quello della Gran Bretagna.

La lezione è chiara: come mostra la Gran Bretagna, la stragrande maggioranza delle persone ha scelto di farsi vaccinare di propria spontanea volontà e non ha bisogno di essere costretta a farlo dallo stato. In effetti, costringere le persone a farlo – come mostra l’Italia – non funziona.

Ciò che conta di più, ovviamente, è il conteggio dei morti. Ma anche qui ‘Il Green Pass’ e ‘Il Super Green Pass’ hanno avuto poco effetto. In effetti, creando un senso di falsa fiducia tra i vaccinati, potrebbero aver peggiorato le cose. Ad ogni modo, hanno fallito. Se avessero funzionato, i tassi di infezione dell’Italia sarebbero stati di gran lunga inferiori a quelli della Gran Bretagna. Eppure, dall’inizio dell’ultima grande ondata di sombrero a dicembre causata dalla variante Omicron, l’Italia ha avuto un numero notevolmente simile di infezioni da Covid alla Gran Bretagna senza pass verde.

La spiegazione, ovviamente, è che a prescindere dai Green, gli italiani vaccinati si infettano a vicenda.

Dal 1° dicembre – quando la variante Delta era in uscita e la variante Omicron in arrivo – sono stati più di sette milioni i casi di Covid sia in Italia che in Gran Bretagna. In Italia, il 70 per cento delle infezioni da Covid nell’ultimo mese sono state in persone parzialmente o completamente vaccinate.

Vero, proporzionalmente, poche persone vaccinate che prendono il Covid finiscono in ospedale, o muoiono, ma quelle che lo fanno sono ancora molte. Circa la metà dei ricoveri Covid in Italia e più della metà dei decessi Covid da dicembre sono state persone vaccinate parzialmente o totalmente.

Per aggiungere la beffa al danno, l’Italia ha avuto molti più decessi per Covid rispetto alla Gran Bretagna dal 1° dicembre. In Italia, dal 1° dicembre, ci sono stati 18.000 morti per Covid, rispetto ai 15.000 morti per Covid in Gran Bretagna. Questa è un’enorme differenza. Eppure i politici, i giornalisti e la maggior parte degli stessi italiani continuano a credere che “Il Green Pass”, ora trasformato in “Il Super Green Pass”, sia l’unica soluzione.

L’Italia non ha un Primo Ministro eletto dal 2011, eletto nel senso che il Primo Ministro è stato il leader di una coalizione o di un partito che ha vinto le elezioni generali. Tuttavia, non è la natura antidemocratica dei governi italiani a spiegare il regime del passaporto vaccinale in Italia, ma la natura dittatoriale degli italiani. Ironia della sorte, l’unico grande partito ad opporsi al regime è il postfascista Fratelli d’Italia.

Quasi incredibilmente, la scorsa settimana un giornalista ha effettivamente interrogato il professor Walter Ricciardi, consigliere scientifico Covid del ministro della Salute, su questo confronto tra Italia e Gran Bretagna in un importante talk show politico televisivo. Il professore – un equivalente italiano del nostro amato professore Neil Ferguson – stava brontolando su come il passaporto vaccinale garantisca la libertà quando un giornalista presente gli ha chiesto perché fosse necessario quando paesi come Gran Bretagna e Spagna non hanno nulla del genere e tuttavia hanno avuto una mortalità inferiore. Infatti, secondo i dati della John Hopkins University, l’Italia ha avuto 252,55 morti ogni 100.000 abitanti e la Gran Bretagna 240,57. Il prof Ricciardi – che ha accusato il giornalista di fare affermazioni «prive di ogni fondamento scientifico» – ha ribattuto: «L’Inghilterra calcola i decessi in modo completamente diverso da noi – se calcolasse allo stesso modo, sarebbe il doppio. Sostiene circa 150.000 ma sono 300.000.’ Senza senso! In realtà, la Gran Bretagna richiede solo che il defunto sia risultato positivo negli ultimi 28 giorni della sua vita, il che semmai sopravvaluta il bilancio delle vittime. Ma in Italia le linee guida del servizio sanitario affermano: “Non basta il test positivo al Sars-Cov-2 per considerare la morte dovuta al Covid-19”. Il professore ha continuato affermando che gli inglesi (gli italiani insistono sempre che la Gran Bretagna è Inghilterra) si sono rifiutati di imparare dall’Italia e di conseguenza i “numeri di morti e casi” dell’Inghilterra sono “enormemente maggiori dei nostri”. Una sciocchezza, di nuovo. Ha concluso dicendo che il SSN è così cattivo che per la chirurgia dell’anca “è un’attesa di dieci anni“. Questo, almeno, è forse vero.

domenica 25 luglio 2021

Oltre natura e cultura

 




OLTRE NATURA E CULTURA

L’autore, Philippe Descola,  ha occupato la cattedra che fu di Claude Levi-Strauss al College de France, è uno dei più influenti antropologi viventi.

Per lui, il nostro naturalismo che postula una radicale differenza tra esseri umani e non umani, permettendo di attribuire una cultura solo agli umani, non è che un modo di definire questa relazione.

Molti sono gli esempi: le culture segnate dall’animismo ritengono che i non umani abbiano un “anima” (nel significato più esteso possibile) simile agli umani ma solo un corpo diverso.

Altre, come ad esempio quella degli aborigeni australiani, ritengono che gli umani e i non umani abbiano corpi e anime simili e quindi che possano ibridarsi.

Altre ancora, come quelle dell’ India o della Cina antica, vedono i diversi esseri disposti lungo una catena gerarchica.

Mentre minacce climatiche e sanitarie rendono chiaro di quanto sia rischioso pensarci come esseri indipendenti dal mondo che abitiamo, è particolarmente benvenuta la riproposizione di questo classico dell’antropologia che qualche anno fa ha cambiato il modo di pensare la relazione tra esseri umani e non umani (animali, vegetali e minerali).

Una lettura molto formativa e sensibilizzante verso “l’altro” quando quest’altro è la Cultura.

venerdì 18 giugno 2021

MINDFULNESS: la meditazione che fa bene al capitale

 

 

La mindfulness, una tecnica di meditazione sviluppata a partire dagli insegnamenti buddisti che consiste nel portare tutta l’attenzione al momento presente, è diventata un fenomeno di massa, con tanto di bollino di approvazione di celebrità come Oprah Winfrey e Goldie Hawn. Preparatori spirituali, monaci e neuroscienzati sono andati fino a Davos per illustrarne i particolari ai capi d’azienda presenti al World Economic Forum. Profetizzando che il suo ibrido di scienza e disciplina meditativa “potrà dare vita a un rinascimento universale o globale”, Jon Kabat- Zinn, l’inventore della Mindfulness based stress reduction (Mbsr), ha ambizioni che vanno al di là della sconfitta dello stress. La mind ful ness, sentenzia, “è forse l’unica speranza per la specie e per il pianeta di sopravvivere nei prossimi due secoli”. In che cosa consiste, allora, questa magica panacea? Nel 2014 la rivista Time ha messo in copertina una giovane donna dai capelli biondi in estasi con sotto il titolo: “The mindful revolution”, la rivoluzione consapevole. L’articolo all’interno descriveva una tipica attività dei corsi standard sulla Mbsr: mangiare un chicco d’uva molto lentamente. “La capacità di concentrarsi per alcuni minuti su un singolo chicco d’uva non è una sciocchezza se l’abilità che richiede è la chiave per sopravvivere e avere successo nel ventunesimo secolo”, spiegava l’autore. Ma come tutto ciò che promette il successo nella nostra società ingiusta senza cercare di cambiarla, la mindfulness non ha niente di rivoluzionario: serve solo ad aiutare le persone a far buon viso a cattivo gioco. Anzi, forse rischia perfino di peggiorare le cose. Invece d’incoraggiare un’azione radicale, la mindfulness vuole convincerci che le cause della nostra sofferenza vanno ricercate soprattutto dentro noi stessi, e non nel contesto politico ed economico che determina il modo in cui viviamo. Eppure i fanatici sostenitori del movimento sono convinti che concentrarsi sul momento presente senza formulare giudizi abbia il potere rivoluzionario di trasformare il mondo intero. È una specie di pensiero magico sotto steroidi. Ci sono certamente elementi lodevoli nella pratica meditativa della mindfulness. Non lasciarsi andare alle masturbazioni mentali aiuta a ridurre lo stress, l’ansia cronica e molte altre patologie. Essere più consapevoli delle nostre reazioni automatiche può farci diventare più calmi e più gentili. I fautori della mindfulness spesso sono brave persone e dopo aver incontrato personalmente molti di loro, compresi i leader del movimento, non ho dubbi che siano animati dalle migliori intenzioni. Ma il problema non è questo. Il problema è il prodotto che vendono e il modo in cui è stato confezionato. La mindfulness è solo una tecnica di concentrazione. Anche se deriva dal buddismo, non ne ha ereditato né gli insegnamenti etici né l’obiettivo di staccarsi da un falso senso di sé attraverso la compassione per tutti gli esseri viventi. Quello che rimane è uno strumento di autodisciplina mascherato da autoaiuto. Invece di liberare le persone, la mindfulness le aiuta ad adattarsi a quelle stesse condizioni che sono alla radice dei loro problemi. Un movimento veramente rivoluzionario cercherebbe di rovesciare questo sistema disfunzionale; la mindfulness, invece, non fa che rafforzarne la logica distruttiva. Negli ultimi decenni l’ordine neoliberista si è imposto quasi furtivamente, alimentando la disuguaglianza attraverso la ricerca del profitto aziendale. Le persone sono state costrette ad adattarsi a ciò che questo modello pretende da loro. Lo stress è stato patologizzato e privatizzato, e l’onere di gestirlo è stato scaricato sul singolo. Ed è qui che intervengono gli imbonitori della mindfulness, pronti a risolvere la situazione. Questo non significa che la mindfulness debba essere proibita o che chiunque la consideri utile sia un povero illuso. Alleviare la sofferenza è un obiettivo nobile che andrebbe incoraggiato. Ma perché questo avvenga, chi insegna la mindfulness dovrebbe innanzi tutto riconoscere che lo stress personale ha anche cause sociali. Evitando di affrontare il problema della sofferenza collettiva – e del cambiamento sistemico che potrebbe rimuoverne le cause – la mindfulness viene spogliata del suo potenziale rivoluzionario, riducendosi a una pratica banale che tiene le persone concentrate su se stesse. Il messaggio fondamentale dei sostenitori della mindfulness è che la radice della nostra insoddisfazione e della nostra angoscia ce l’abbiamo in testa noi. Non concentrandoci su ciò che succede qui e ora, ci perdiamo nei rimpianti per il passato e nella paura del futuro, e questo ci rende infelici. Kabat- Zinn, spesso considerato il padre della mindfulness moderna, parla di una “malattia del pensiero”. Imparare a concentrarsi abbassa il volume del pensiero circolare: la diagnosi di Kabat-Zinn è che “tutta la nostra società soffre di un disturbo da deficit di attenzione”. Di altre fonti di malessere culturale non si parla mai. L’unica volta che compare la parola “capitalista” nel libro di Kabat-Zinn Riprendere i sensi. Guarire se stessi e il mondo attraverso la consapevolezza (Tea 2008) è in un aneddoto su un investitore stressato che dice: “Soffriamo tutti di una specie di disturbo da deficit di attenzione”. I sostenitori della mindfulness, forse inconsapevolmente, lavorano per rafforzare lo status quo. Anziché riflettere su come l’attenzione viene monetizzata e manipolata da aziende come Google, Facebook, Twitter e Apple, individuano la radice della crisi nella nostra mente. Non è la natura del sistema capitalistico a essere intrinsecamente problematica; il problema è l’incapacità dell’individuo di essere consapevole e resiliente in un’economia precaria e incerta. Le soluzioni della mindfulness servono a renderci dei capitalisti più contenti e consapevoli. Praticando la meditazione, dovremmo trovare la nostra libertà individuale in una “pura consapevolezza” che non si lascia distrarre da influenze esterne. Tutto quello che dobbiamo fare è chiudere gli occhi e concentrarci sul nostro respiro. E questo è il punto cruciale della presunta rivoluzione: il mondo lentamente cambia, un individuo consapevole dopo l’altro. È una filosofia politica che ricorda curiosamente il “conservatorismo compassionevole” di George W. Bush. Con il ritiro nella sfera privata, la mindfulness diventa una religione del sé. L’idea di una sfera pubblica viene meno e ogni effetto a cascata della compassione è casuale. Di conseguenza, “il corpo politico non è più un corpo, ma un complesso di imprenditori e consumatori individuali”, osserva la politologa Wendy Brown. La mindfulness, come la psicologia positiva e quella che in senso più ampio potremmo chiamare l’industria della felicità, ha depoliticizzato lo stress. Se non siamo contenti – magari perché siamo disoccupati, perché non abbiamo i soldi per curarci bene o perché i nostri figli sono sommersi dai debiti per pagare l’università – è nostra responsabilità imparare a essere più consapevoli. Kabat-Zinn ci assicura che “la felicità è un lavoro interiore” che ci richiede semplicemente di occuparci del momento presente in modo consapevole senza esprimere giudizi. Un altro dichiarato sostenitore della pratica meditativa, il neuroscienziato Richard Davidson, dice che “il benessere è un’abilità” che può essere allenata, come si allenano i bicipiti in palestra. La cosiddetta rivoluzione della mindfulness accetta docilmente i dettami del mercato. Ispirata da un ethos terapeutico che punta a migliorare la resilienza mentale ed emotiva dell’individuo, la mindfulness sposa la tesi neoliberista secondo cui ognuno è libero di scegliere le proprie risposte, di gestire le emozioni negative e di “fiorire” attraverso varie modalità di cura del sé. Presentando la loro proposta in questi termini, molti insegnanti di mindfulness scartano a priori qualsiasi programma terapeutico che cerchi di identificare criticamente le cause della sofferenza nelle strutture di potere e nei sistemi economici della società capitalista. Il termine “McMindfulness” è stato coniato da Miles Neale, maestro di buddismo e psicoterapeuta, che ha parlato di “una bulimia di pratiche spirituali che danno nutrimento immediato ma nessun sostentamento a lungo termine”. La moda contemporanea della mindfulness è, da un punto di vista imprenditoriale, l’equivalente di McDonald’s. Al fondatore di McDonald’s, Ray Kroc, dobbiamo la nascita dell’industria del fast food. Quando vendeva solo frullati, Kroc aveva intravisto il potenziale di una catena di ristoranti a San Bernardino, in California, e si era accordato con i proprietari, i fratelli McDonald, per diventare il loro agente di franchising. In poco tempo aveva rilevato la proprietà e aveva trasformato la catena in un impero globale. Kabat-Zinn, che praticava assiduamente la meditazione, ebbe una folgorazione durante un ritiro: poteva adattare gli insegnamenti e le pratiche del buddismo per aiutare i pazienti ricoverati in ospedale ad affrontare il dolore fisico, lo stress e l’ansia. Il suo colpo da maestro è stato vendere la mindfulness come una forma di spiritualità laica. Kroc aveva capito che poteva offrire agli statunitensi indaffarati un servizio di ristorazione veloce e uniforme attraverso l’automazione, la standardizzazione e la disciplina. Kabat-Zinn capì che poteva offrire agli americani stressati un sistema per ridurre lo stress con un corso di mindfulness di otto settimane impartito in modo uniforme attraverso un programma standardizzato. Gli insegnanti di mindfulness e Mbsr ottengono la certificazione frequentando i corsi presso il Center for mindfulness di Kabat-Zinn a Worcester, nel Massachusetts. Kabat-Zinn continua ad allargare la sfera di influenza della Mbsr individuando nuovi mercati come aziende, scuole, pubblica amministrazione e forze armate e promuovendo altre forme di interventi basati sulla consapevolezza (mindfulness-based interventions o Mbi). Sia Kroc sia Kabat-Zinn hanno adottato misure che fanno sì che né la qualità né i contenuti dei rispettivi prodotti cambino da un franchising all’altro. Gli hamburger e le patatine di McDonald’s sono gli stessi a Dubai come a Dubuque. Secondo lo stesso principio, ci sono pochissime variazioni nei contenuti, nella struttura e nel programma dei corsi Mbsr nei vari paesi del mondo. La mindfulness è stata venduta ovunque e mercificata, ridotta a una tecnica per qualsiasi scopo pratico o quasi. È usata per far calmare i bambini che vivono in città o per dare un vantaggio mentale ai gestori di hedge funds o per ridurre lo stress dei piloti di droni militari. Tutto questo è successo in parte perché i fautori della mindfulness sono convinti che la loro sia una pratica apolitica. Danno semplicemente per scontato che il comportamento etico deriverà “naturalmente” dalla pratica e dall’affabile gentilezza incarnata dall’insegnante o dall’evento casuale della scoperta di sé. In realtà, l’affermazione secondo la quale dal “prestare attenzione al momento presente, senza giudicare” seguiranno grandi cambiamenti etici è palesemente falsa. L’enfasi sulla “consapevolezza non giudicante” può altrettanto facilmente tradursi nella soppressione della propria intelligenza morale. In Selling spirituality: the silent takeover of religion (Vendere la spiritualità: la conquista silenziosa della religione), Jeremy Carrette e Richard King sostengono che dal settecento in poi le tradizioni della saggezza asiatica sono state oggetto di colonizzazione e mercificazione, sfociando in una spiritualità fortemente individualistica che si è perfettamente adattata ai valori culturali dominanti senza richiedere cambiamenti sostanziali nello stile di vita delle persone. La mindfulness viene così cooptata e ridotta banalmente al “pacificare le sensazioni d’ansia e inquietudine a livello individuale, senza cercare di mettere in discussione le disuguaglianze sociali, politiche ed economiche che provocano le nostre angosce”, scrivono Carrette e King. Ma questa consapevolezza privatizzata è politica: il suo scopo è ottimizzare l’individuo attraverso la terapia per renderlo “mentalmente pronto”, vigile e resiliente, in modo che possa continuare a funzionare all’interno del sistema. Questa capitolazione è lontana da una rivoluzione: somiglia più a una resa silenziosa. La mindfulness si pone come una pratica che può aiutarci ad affrontare le influenze nocive del capitalismo. Ma poiché ciò che offre è facilmente assimilabile dal mercato, il suo potenziale di trasformazione sociale e politica è neutralizzato. I leader del movimento sono convinti che il capitalismo e la spiritualità si possano conciliare; vogliono alleviare lo stress dell’individuo senza indagare sulle sue cause in modo più ampio e profondo. Un movimento davvero rivoluzionario contesterebbe l’idea occidentale che esista un diritto alla felicità indipendente dalla condotta morale. I programmi di mindfulness, però, non chiedono ai manager di riflettere su come le loro decisioni e le loro scelte aziendali hanno istituzionalizzato l’avidità, il risentimento e l’illusione. La meditazione viene venduta ai dirigenti semplicemente come un modo per ridurre lo stress, migliorare la produttività e la concentrazione e recuperare dopo aver lavorato ottanta ore a settimana. Potranno pure meditare, ma è come prendere un’aspirina per il mal di testa: una volta che il dolore passa, è tutto come prima. Magari diventeranno individui più gentili, ma l’obiettivo aziendale di massimizzare i profitti non cambia. Se l’unica funzione della mindfulness è aiutare le persone a gestire le situazioni che le mettono sotto stress, forse potremmo aspirare a qualcosa di più. Dovremmo rallegrarci del fatto che questa perversione aiuta le persone ad “auto-sfruttarsi”? Perché questo è il nocciolo della questione. L’interiorizzazione dell’attenzione predicata dalla mindfulness porta a interiorizzare anche altri fattori, dalle condizioni imposte dalle aziende alle strutture di dominio nella società. Quel che è peggio è che questa posizione di sottomissione viene spacciata per libertà. La mindfulness, in effetti, si nutre di un concetto orwelliano e distopico di libertà, che esalta le libertà egocentriche senza prestare alcuna attenzione alla responsabilità civile o alla coltivazione di una consapevolezza collettiva capace di ricercare la libertà all’interno di una società cooperativa e giusta. Naturalmente, è più facile parlare di ridurre lo stress e aumentare la felicità e il benessere che interrogarsi seriamente sull’ingiustizia, la disuguaglianza e la devastazione dell’ambiente. La seconda scelta comporta una sfida all’ordine sociale, mentre la prima fa leva esattamente sulle priorità della mindfulness: aiutare le persone a concentrarsi, migliorare il loro rendimento sul lavoro e all’università e promettere perfino una vita sessuale migliore. Non solo la mindfulness è stata riconfezionata come una nuova tecnica di psicoterapia: la sua pratica viene sfruttata commercializzandola come una forma di auto aiuto. Si dice che la mindfulness sia un’industria da quattro miliardi di dollari. Più di 60mila libri in vendita su Amazon hanno una variante di mindfulness nel titolo: ci si occupa di genitori consapevoli, cibo consapevole, insegnanti consapevoli, finanza consapevole e padroni di cani consapevoli, solo per citarne alcuni. Oltre ai libri, ci sono workshop, corsi online, riviste patinate, film, documentari, app per smartphone, campanelli, cuscini, braccialetti, prodotti di bellezza e altri accessori, oltre a un redditizio e fiorente circuito di conferenze. I programmi di mindfulness sono entrati nelle scuole, nelle società per azioni di Wall Street e nelle aziende della Silicon valley, negli studi legali e nelle agenzie governative, comprese le forze armate statunitensi. Il fatto che la mindfulness si presenti come un palliativo che strizza l’occhio al mercato spiega la sua calorosa accoglienza nella cultura popolare. Il consenso neoliberista della società moderna dice che chi ha potere e ricchezza dovrebbe essere libero di accumularne ancora di più. Forse non è un caso che i venditori di mindfulness che hanno sposato la logica del mercato facciano furore tra gli amministratori delegati a Davos, dove Kabat-Zinn non ha scrupoli nel predicare il vangelo del vantaggio competitivo che deriva dalla pratica meditativa. Negli ultimi decenni il neoliberismo ha superato le sue radici conservatrici. Ha dirottato il dibattito pubblico a tal punto che perfino sedicenti progressisti come Kabat-Zinn pensano in termini neoliberisti. I valori del mercato hanno invaso ogni recesso della vita umana, definendo il modo in cui la maggior parte della gente è costretta a interpretare la realtà. Forse la definizione più chiara e diretta del neoliberismo è quella del sociologo francese Pierre Bourdieu, che lo descrive come “un programma volto a distruggere le strutture collettive che possono impedire la pura logica di mercato”. Siamo generalmente portati a pensare che una società liberista ci offra ampie (se non uguali) opportunità di aumentare il valore del nostro “capitale umano” e della nostra autostima. E per realizzare pienamente la nostra libertà e il nostro potenziale personale, dobbiamo massimizzare la nostra libertà e la nostra felicità gestendo sapientemente le risorse interne. Poiché la concorrenza è così centrale, secondo l’ideologia neoliberista tutte le decisioni su come è gestita la società dovrebbero essere lasciate al funzionamento del mercato, il meccanismo più efficiente per consentire ai concorrenti di massimizzare il loro benessere. Altri attori sociali come lo stato, le associazioni di volontariato e simili sono solo ostacoli al buon funzionamento della logica di mercato. Per un attore della società neoliberista, la mindfulness è un’abilità da coltivare o una risorsa da utilizzare. Una volta che impariamo a padroneggiarla, ci aiuta a navigare tra le correnti infide dell’oceano capitalista, mantenendo la nostra attenzione “non giudicante e centrata sul presente” per affrontare l’inevitabile stress e l’ansia della concorrenza. La meditazione ci aiuta a massimizzare il nostro benessere personale. Tutto questo magari ci fa dormire meglio la notte, ma le conseguenze per la società sono potenzialmente disastrose. Il filosofo sloveno Slavoj Žižek ha analizzato questa tendenza. A suo avviso, la mindfulness si sta “affermando come l’ideologia egemonica del capitalismo globale”, perché aiuta le persone “a partecipare pienamente alla dinamica capitalista mantenendo l’apparenza della sanità mentale”. Distogliendo l’attenzione dalle strutture sociali e dalle condizioni materiali della cultura capitalista, la mindfu ness può essere facilmente cooptata. Le celebrità le danno la loro benedizione, e le più importanti aziende californiane, tra cui Google, Facebook, Twitter, Apple e Zynga, ne hanno fatto una specie di appendice dei loro marchi. La retorica della “padronan za di sé”, della “resilienza” e della “felicità” presuppone che il benessere sia semplicemente una questione di sviluppo di un’abilità. Dietro il suo impianto terapeutico, la mindfulness presenta subdolamente tutti i problemi come il frutto di scelte. I problemi personali non sono mai ricondotti a condizioni politiche o socioeconomiche, ma sono sempre di natura psicologica e diagnosticati come patologie. La società ha bisogno di terapia, non di un cambiamento radicale. Ecco perché i programmi di mindfulness sono diventati così attraenti per chi governa. Problemi sociali che affondano le loro radici nella disuguaglianza, nel razzismo, nella povertà, nella dipendenza e nel deterioramento della salute mentale possono essere riformulati in termini di psicologia individuale, di richiesta di aiuto terapeutico. Il neoliberismo divide il mondo in vincitori e sconfitti. Funzionale a questa azione è il suo perno ideologico: l’individualizzazione di tutti i fenomeni sociali. Poiché l’individuo autonomo (e libero) è il punto focale della società, il cambiamento sociale non si realizza attraverso la protesta politica, l’organizzazione e l’azione collettiva, ma attraverso il libero mercato e le azioni atomizzate degli individui. Qualsiasi tentativo di cambiare questo stato di cose attraverso strutture collettive è generalmente un fastidio per l’ordine neoliberista. E quindi è scoraggiato. Un esempio illuminante è la pratica del riciclaggio. Qui il problema vero è la produzione in serie di materie plastiche da parte delle aziende e il loro uso eccessivo nel commercio al dettaglio. I consumatori, però, sono indotti a credere che il problema sia lo spreco personale, e che questo problema si possa risolvere cambiando le loro abitudini. Come ha spiegato un recente articolo pubblicato su Scientific American, “pensare di salvare la Terra riciclando la plastica è come pensare di fermare un grattacielo che crolla piantando un chiodo”. La dottrina neoliberista della responsabilità individuale ha fatto il suo gioco di prestigio, distraendoci dal vero colpevole. Non è certo una novità. Negli anni cinquanta, la campagna “Keep America beautiful” invitava i cittadini a raccogliere la spazzatura e il progetto era finanziato da aziende come la CocaCola e la Phillip Morris. Due decenni dopo, in un famoso spot televisivo si vedeva un nativo americano che piangeva alla vista di un automobilista che scaricava immondizia. Lo slogan era “People start pollution. People can stop it” (Le persone provocano l’inquinamento. Le persone possono fermarlo). L’articolo di Matt Wilkins su Scientific American smaschera tutte queste mistificazioni. A prima vista, queste campagne sembrano in buona fede, ma non fanno che oscurare il vero problema, cioè la responsabilità delle aziende che inquinano. Questa diversione ha portato la giornalista e scrittrice Heather Rogers a definire Keep America beautiful la prima iniziativa di green washing (ambientalismo di facciata) aziendale, perché è riuscita a spostare l’attenzione pubblica sul comportamento dei consumatori evitando che si discutesse una legge sulla responsabilità dei produttori nella gestione dei rifiuti. È sempre lo stesso messaggio: l’azione individuale è l’unico vero modo per risolvere i problemi sociali, perciò siamo noi che dobbiamo assumerci la responsabilità. Siamo intrappolati in una trance neoliberista da quella che lo studioso dell’educazione Henry Giroux definisce una “macchina della disimmaginazione”, che soffoca il pensiero critico e radicale. Siamo invitati a guardarci dentro e a gestire noi stessi. La disimmaginazione ci spinge ad abbandonare ogni idea creativa su nuove possibilità. Anziché cercare di smantellare il capitalismo o frenare i suoi eccessi, dobbiamo accettare le sue imposizioni e usare l’autodisciplina per essere più efficaci sul mercato. Ci viene spiegato che per cambiare il mondo dobbiamo lavorare su noi stessi, cambiare il nostro modo di pensare e diventare più consapevoli, senza giudicare e accettando le circostanze. Il principio fondamentale della mindfulness neoliberista, cioè che la fonte dei problemi delle persone si trova nelle loro teste, è accentuato dalla patologizzazione e dalla medicalizzazione dello stress, che impone una cura e un trattamento esperto. Il messaggio è che se non possiamo modificare le circostanze che causano la nostra angoscia, possiamo cambiare le nostre reazioni di fronte alle circostanze. In un certo senso può essere una cosa utile, dal momento che molte dinamiche non sono sotto il nostro controllo. Ma abbandonare tutti gli sforzi di risolverle sembra eccessivo. Le pratiche di mindfulness non ammettono la critica o il dibattito su tutto ciò che può essere ingiusto, culturalmente tossico o dannoso per l’ambiente. L’imperativo consapevole di “accettare le cose come sono” perseguendo la “consapevolezza non giudicante del momento presente” agisce come un’anestesia sociale, preservando lo status quo. La promessa della mindfulness di una “fioritura umana” (che è anche il grido di battaglia della psicologia positiva) è la cosa più vicina a una visione di cambiamento sociale. Si tratta però sempre di una visione individualizzata, che dipende dalla scelta personale di essere più consapevoli. Chi pratica la mindfulness ovviamente può avere idee politiche molto diverse da quelle neoliberiste, ma il rischio è che ognuno cominci a ritirarsi nel proprio mondo privato e nella propria identità particolare, proprio dove vogliono rinchiuderci le strutture di potere neo liberiste. La pratica della mindfulness è parte integrante di quella che Jennifer Silva, che studia la cultura del lavoro degli Stati Uniti, chiama mood economy o “economia dell’umore”. In Coming up short: working class adulthood in an age of uncertainty (Inadeguati: lavoratori adulti in un’epoca di incertezza), Silva spiega che, come la privatizzazione del rischio, l’economia dell’umore rende “l’individuo il solo responsabile del suo destino emotivo”. In questa vera e propria economia politica dell’affetto, le emozioni sono regulate come un mezzo per migliorare il proprio “capitale emotivo”. Nel programma di mind ful ness “Search inside yourself ” di Google, l’intelligenza emotiva ha la massima importanza. Il programma viene venduto agli ingegneri di Google come un passaggio fondamentale per la loro carriera: gestire le proprie emozioni attraverso la pratica della mindfulness genera un plusvalore economico equivalente all’acquisizione di capitale. L’economia dell’umore richiede inoltre la capacità di reagire alle battute d’arresto per rimanere produttivi in un contesto economico precario. Come la psicologia positiva, la mindfulness si è fusa con la “scienza della felicità”. Una volta confezionata in questo modo, può essere venduta come una tecnica per facilitare la produzione, sradicando l’individuo dal mondo sociale. Tutte le promesse della mindfulness richiamano quello che la teorica culturale della University of Chicago Lauren Berlant definisce “ottimismo crudele”, un tratto distintivo del neoliberismo. La crudeltà sta nel fatto che ognuno di noi investe emotivamente in quelle che, in definitiva, sono solo fantasie. Ci viene detto che se pratichiamo la mindfulness e riordiniamo le nostre vite individuali possiamo essere felici e al sicuro. Un’occupazione stabile, una casa di proprietà, la mobilità sociale, il successo professionale e l’uguaglianza ne saranno la naturale conseguenza. Ci viene promesso che raggiungeremo la padronanza di noi stessi, che il controllo della nostra mente e delle nostre emozioni ci permetterà di prosperare tra i capricci del capitalismo. Osserva Joshua Eisen, del dipartimento di antropologia dell’università McGill di Montréal e autore di Mind ful calculation: “Come il cavolo verza, le bacche di açaí, l’iscrizione in palestra, l’acqua vitaminizzata e tutti i buoni propositi per l’anno nuovo, la mindfulness è la spia di un profondo desiderio di cambiamento, che si basa però su una sostanziale riaffermazione delle fantasie neoliberiste dell’autocontrollo e della libera azione”. Dobbiamo solo sederci in silenzio, prestare attenzione al nostro respiro, e aspettare. La crudeltà è doppia perché queste fantasie normative sul “vivere bene” si stanno già sgretolando sotto il peso del neoliberismo, e concentrandoci individualmente sui nostri sentimenti non facciamo che peggiorare la situazione. Trascurando la nostra reciproca vulnerabilità e interdipendenza, disimmaginiamo come difenderci collettivamente. E nonostante la vacuità delle fantasie che alimentiamo, continuiamo ad aggrapparci a loro. La mindfulness non è crudele in sé e per sé. È crudele solo quando è feticizzata e collegata a promesse sproporzionate. È allora, come sottolinea Berlant, che “l’oggetto che attira il nostro attaccamento impedisce attivamente lo scopo che ci ha portato inizialmente a esso”. La crudeltà sta nel sostenere lo status quo mentre si usa il linguaggio della trasformazione. È così che la mindfulness neoliberista promuove una visione individualistica della prosperità umana, persuadendoci ad accettare le cose come sono, sopportando “consapevolmente” le devastazioni del capitalismo. RONALD PURSER insegna gestione d’impresa alla San Francisco state University. Questo articolo è un adattamento dal suo libro McMindfulness: how mindfulness became the new capitalist spirituality (Repeater 2019). È uscito sul Guardian con il titolo The mindfulness conspiracy.


venerdì 21 maggio 2021

L' Arca dei suoni originali





Professore di musica elettroacustica al Conservatorio "Rossini" di Pesaro, David Monacchi è un'utopia vivente e vibrante. Da quasi vent'anni lavora a Fragments of Extinction, un progetto che registra con tecniche tridimensionali innovative – messe a punto da Monacchi stesso – i suoni delle foreste vergini di tutto il mondo. In questi luoghi in cui l'essere umano non ha ancora lasciato traccia, la Natura canta e respira come nella notte dei tempi, probabilmente per l'ultima volta. Queste registrazioni hanno il nome evocativo di "ritratti acustici" e restituiscono, fissandolo nel tempo, il linguaggio sonoro di un pianeta che rotola verso la sesta estinzione. Il meraviglioso progetto di Monacchi è quello di creare un'arca immateriale che custodisce i suoni del mondo naturale, e di costruire un teatro sferico per l'ascolto immersivo, un'arca reale, di speranza, dove accrescere la coscienza ecologica pubblica al fine di salvare quanti più ecosistemi possibili. In questo libro l'autore racconta la sua straordinaria intuizione e l'incredibile parabola di un progetto internazionale partito dall'Italia, che fonde musica, innovazione tecnologica, natura e battaglia ecologica planetaria. È la storia di un guerriero armato solo di microfoni e di una grande anima, di un cacciatore di suoni, di un musicista a mani nude e a orecchie aperte che sta raccogliendo la colonna sonora del mondo primordiale prima che sia zittita dall'incoscienza dell'umanità



mercoledì 19 maggio 2021

La fabbrica del consenso - Noam Chomsky




In un paese democratico l'indipendenza e la libertà di espressione dovrebbero essere le qualità portanti dei giornali e di tutti i media. La realtà è però un'altra: sono le forza politiche ed economiche a decidere quali notizie dovranno raggiungere il pubblico, e in che modo. Noam Chomsky e Edward S. Herman svelano come, grazie alla manipolazione delle notizie, l'opinione pubblica viene spinta a sostenere determinati interessi e punti di vista. "La fabbrica del consenso" offre un'analisi precisa su quanto siano veramente strumentalizzati i media e fornisce la chiave per interpretarne i messaggi.


 

PROPAGANDA - Come manipolare l'opinione pubblica

 


"Propaganda. L'arte di manipolare l'opinione pubblica" è un saggio del 1928 di Edward L. Bernays, 'padre delle pubbliche relazioni' e pioniere dell'arte propagandistica in senso moderno. 

Sebbene il suo nome sia ancora oggi poco noto al grande pubblico, l'opera e le idee di Bernays hanno influenzato profondamente le strategie comunicative e politiche dal secolo scorso e fino ai giorni nostri. 
Divenuto nel corso degli anni un testo culto in cui si teorizza, forse per la prima volta in termini così espliciti, la necessità, per una democrazia sana, di ricorrere a tecniche "scientifiche" per "plasmare" e "inquadrare" l'opinione pubblica: per dar luogo a quella «ingegneria del consenso» di cui Bernays fu pioniere e primo teorico. 

La propaganda come strumento d'elezione per la manipolazione dell'opinione pubblica in democrazia è teorizzata da Bernays come essenziale al buon funzionamento di ogni settore della società: la manipolazione "scientifica" dell'opinione pubblica - «per portare ordine laddove regna il caos» per permettere la piena realizzazione della società democratica, in cui la «minoranza intelligente» riesca a plasmare la maggioranza silente e gregaria in vista di obiettivi e scopi «positivi e costruttivi», tendenti alla pace sociale e al benessere del maggior numero di uomini possibili.

Edward Louis Bernays (Vienna, 22 novembre 1891 – Cambridge, 9 marzo 1995) è stato un pubblicista e pubblicitario statunitense di origine austriaca. Celebre per la sua parentela con Sigmund Freud, Bernays fu uno dei primi spin doctor, ed è considerato, assieme a Ivy Lee e a Walter Lippmann, uno dei padri delle moderne relazioni pubbliche, di cui, già nei primi anni del Novecento, teorizzò le principali regole fondanti.

Combinando le idee di Gustave Le Bon (autore del libro Psicologia delle folle) e Wilfred Trotter (studioso del medesimo argomento) con le teorie sulla psicologia elaborate dallo zio, Bernays fu uno dei primi a commercializzare metodi per utilizzare la psicologia del subconscio al fine di manipolare l’opinione pubblica. A lui si devono le locuzioni “mente collettiva” e “fabbrica del consenso”, concetti importanti nel lavoro pratico della propaganda.